Ilmaltobirraio

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lunedì 4 luglio 2016

I viaggi del Maltobirraio_Le Birre del Parco Parri


 
Dopo che il caldo ha titubato ad arrivare, nonostante l’estate, abbia avuto inizio già da un paio di settimane, dopo una primavera metereologicamente altalenante, eccoci ritrovati immersi nella solita afa torrida che spesso in questo periodo dell’anno, contraddistingue il nord Italia. Per la prima domenica di luglio ’16, il cielo ci ha riservati un azzurro, imponente, più delle bandiere sventolate negli stadi, dai nostri connazionali, presenti agli Europei di calcio, che si stanno svolgendo in Francia in questi giorni, ed un sole al massimo del suo splendore ed ovviamente del suo calore. In questa bellissima giornata, quindi, abbiamo deciso di evitare le chilometriche code verso le spiagge già super affollate, ed abbiamo scelto di rilassare le nostre menti, ossigenare i nostri polmoni e rinfrescare le nostre arse gole, in un bellissimo parco del pavese, il Parco Parri di Vigevano, ove grazie a “Beerinba” si è tenuto un evento di tre giorni dedicato alla Birra Artigianale, allo Street Food e naturalmente al divertimento.

Il parco situato al centro della cittadina in provincia di pavia, da poco tempo ristrutturato, ci ha accolti all’interno del suo immenso verde, attraversato da un bellissimo laghetto pluripopolato da pesci, anatre ed anche qualche cigno. All’interno della struttura si può passeggiare in tutta tranquillità lungo il sentiero che circonda il laghetto, si può prendere un po’ di fresco sulle panchine dislocate lungo tutto il parco e sono state create varie attrazioni anche per il divertimento e lo svago dei bambini. Per questo weekend, affianco al bar del parco, è stata creata inoltre un area pic-nic circondata da sette stand di birrifici artigianali e quattro postazioni food.

Dopo aver assaporato i vari profumi offerti dalla natura di questo grazioso parco cittadino, il caldo venticello estivo ci ha quindi accompagnato all’interno dell’area pic-nic, dove come al sempre in queste occasioni è arrivato ad assalirci il solito dilemma…da quale birra partiamo??

La prima scelta è ricaduta su “Il Conte Gelo” birrificio della Lomellina che ci ha fatto molta simpatia per la sua locandina dedicata ai “Bevitori Seriali”. Qui abbiamo assaggiato due delle loro cinque birre presentateci:  “Gragnola” una session beer molto beverina, una Golden Ale dal volume alcolico contenuto pari al 4,3% , una bionda molto chiara, dal gusto secco e dissetante e nello stesso tempo avvolgente nei suoi profumi fruttati e floreali; e poi “Kamchatka” un Imperial stout molto imponente al palato e una gradazione alcolica molto elevata, facile riconoscere il retrogusto di caffè tostato e il profumo di cioccolato, un colore molto scuro ed un finale amaro molto importante.

Abbiamo poi deciso di accompagnarci con qualche sfiziosità street food e passando davanti allo stand di “Mamma che Buono” ci siamo lasciati incantare dalle sue fritture ed ingolosire da un buonissimo cartoccio di pesciolini fritti deliziosissimi, che ovviamente abbiamo accompagnato con dell’ottima birra stavolta spillataci dalle “fontane” di “Croce di Malto” dove a presidiare lo stand c’erano i gentilissimi Enzo e Barbara nonché gestori di “Beerinba”. Ma andiamo alle birre, le scelte sono ricadute su “Temporis” una season beer, una bionda molto fresca con un 6,8% di gradazione alcolica, sentori speziati con retrogusto ed un profumo di zucchero candito; e poi “Hauria” una bionda leggera, poco alcolica che va facilmente a rinfrescare i palati e le gole di chi la beve, molto buona e dissetante.

Purtroppo, non abbiamo potuto visitare tutti gli stand, dove però ci tengo a citare la presenza di “Panzeroad” che spero presto di ritrovare in un nuovo evento per aver l’occasione di assaggiare uno dei loro panzerotti; e poi dei birrifici “Gaia” e “Castagnero”, che avevamo già avuto il piacere di conoscere a Grazzano Visconti, dove avevamo incontrato anche  un altro birrificio, ma senza aver avuto la possibilità di conoscerlo così a fondo come in questa occasione, ed è proprio per questo che ho volutamente lasciarlo per ultimo, non certo per quanto riguarda i meriti delle sue birre e tantomeno dell’accoglienza e della simpatia di Michele il “Venditore”. Sto parlando del microbirrificio JEB di Baù Chiara sito in  Trivero (BI). Travolti dalla simpatia e dalla chiacchiera di Michele, qui le birre le abbiamo assaggiate davvero tutte scegliendone infine addirittura un tris da portare a casa. Come di mia abitudine però, non voglio svelarvi proprio tutto, preferendo che vi resti un po’ di curiosità che vi spinga, come farà sicuramente presto “Ilmaltobirraio”, ad andare di persona a degustare queste fantastiche birre, tra le quali c’è “Maya” una chiara prodotta con puro malto d’orzo, aromatizzata con miele di rododendro che insieme a delle note floreali regalano un’intensità di profumi emozionante regalando al palato la dolcezza del miele, appunto; la buonissima “Saison n.5”, una belgian wheat ad alta fermentazione con un fondo dolce fresco e speziato, aromatizzata con scorza di arancia e semi di cardamomo; interessante è “Brulè” una birra ambrata con malto d’orzo e aromatizzata con chiodi di garofano e cannella che lasciano spazio anche a sentori di fiori d’arancio, una 5,5% di volume alcolica connotata da molta frescezza ed un’importante “frizzantezza”; dulcis in fundo “Never Say Never” un American Pale Ale con otto luppoli americani, agrumi e frutti tropicali, è l’ultima nata del birrificio JEB e…e non vi dico null’altro perché dovreste assolutamente assaggiarla per capire quanto è sorprendentemente buona.

Salutando Vigevano e il parco Parri ringraziamo per la bellissima accoglienza di tutta la struttura, in particolare di tutti gli stand sia birraioli che gastronomici e purtroppo anche questo viaggio de “Ilmaltobirraio” è giunto al termine con un nuovo bagaglio di sapori, profumi e tanta tanta simpatia.

giovedì 12 maggio 2016

La cottura del mosto e il luppolamento


Eccoci ad una nuova fase, anch’essa molto importante, del nostro processo di birrificazione.  Una volta terminato il lavaggio delle trebbie, e quindi la filtrazione, si procederà alla cottura del mosto.

Lo scopo della cottura è quello di estrarre le sostanze aromatiche  del luppolo, di uccidere tutti i microrganismi, e quindi di sterilizzare, e di far coagulare le proteine per ottenere una birra più stabile e trasparente. Raccolto il mosto, in un pentolone d’acciaio inossidabile o di rame, lo portiamo quindi all’ebollizione. A questo punto si aggiunge il luppolo:  la teoria dice due grammi di fiori per ogni litro di birra se non si vuole produrla troppo amara; tre, quattro o addirittura cinque grammi per chi invece la preferisce più amara. Ovviamente poi il mio pensiero dice, e spero anche il vostro, che la creazione di una birra artigianale ha un qualcosa di artistico, quindi vi consiglio di sperimentare e dare sfogo alla fantasia per cercare di trovare gli abbinamenti che più vi aggradano.

Al momento “dell’inserimento”, bisogna avere cura che il luppolo non resti a galla, ma che invece venga subito coinvolto nell’ebollizione. Negli ultimi tempi, invece dei fiori di luppolo, che perdono una parte del loro aroma in pochi mesi, si usa spesso il luppolo “cubettato”,detto pellet, che ha il pregio, essendo fortemente pressato e confezionati in recipienti a tenuta, di non lasciare reagire l’ossigeno con le sue sostanze aromatiche.  Fate attenzione però: se usate questo tipo di luppolo la schiuma che si forma dopo pochi secondi è maggiore rispetto all’uso dei fiori, tanto da poter far traboccare il liquido all’interno della pentola. In questo caso è sufficiente continuare a mescolare senza abbassare la fiamma.

Dalla qualità del luppolo dipende, in parte, la qualità dell’aroma della birra, come certo è che dalla quantità  ne dipende direttamente l’intensità di amaro. Dato che il luppolo ha anche la facoltà di conferire alla birra una schiuma più compatta e più stabile, e dato che contiene delle sostanze che agiscono contro lo sviluppo di microrganismi, spesso il birraio preferisce usare quelle varietà la cui quantità può essere maggiorata senza che l’amaro della birra diventi troppo intenso per il palato del consumatore. Quindi il mosto, cui si è aggiunto il luppolo, si fa bollire per circa un’ora e mezza. Durante l’ebollizione, le componenti amare del luppolo si isomerizzano e passano in soluzione, mentre le proteine subiscono una coagulazione, diventando in parte insolubili e in tal modo, nella fase successiva facilmente eliminabili, a tutto vantaggio della stabilità della birra. I microrganismi eventualmente ancora presenti nel mosto vengono uccisi, rendendolo così stabile anche sotto l’aspetto microbiologico, il processo enzimatico viene bloccato, e con l’evaporazione dell’acqua per ebollizione si ottiene la concentrazione dell’estratto che si desidera avere all’inizio della fermentazione.

Trascorso il tempo di ebollizione si procede con il raffreddamento. Il mosto dev’essere liberato dal coagulo di proteine, dalle sostanze insolubili del luppolo e da eventuali sostanze insolubili del malto che fossero sfuggite alla filtrazione della miscela. Più limpido è il mosto all’inizio della fermentazione, più fine risulta la birra finita. L’abbattimento della temperatura deve avvenire nel minor tempo possibile, arrivando alla quota giusta, in base al tipo di fermentazione che si vuole applicare (5-6°C bassa fermentazione, 10-12°C alta fermentazione), ma nel frattempo, si deve evitare la contaminazione di microrganismi che possono infettare la birra. Vi sono più tipi di raffreddamento “rapido”: quello più facilmente attuabile in casa si ottiene con una serpentina di rame immersa nel mosto e collegata ad un rubinetto di acqua fredda. È consigliabile immergere la serpentina, già lavata, nel mosto, già negli ultimi cinque minuti della cottura, in modo da ottenere anche una sterilizzazione della stessa. Una volta ottenuto l’abbattimento della temperatura, il mosto, ancora ricco dei fiori del luppolo, dovrà essere filtrato nuovamente. Questo passaggio serve a ripulirlo del luppolo e dei coaguli di proteine che si sono formati. È sufficiente usare un classico colino da cucina, appoggiarlo sul bordo del fermentatore e con cautela versare il liquido al suo interno. Ciò trattiene i semi e i petali del luppolo e facendo cadere il mosto sul fondo del fermentatore da una certa altezza e con una certa energia, diamo vita ad una prima aerazione  del mosto, che sarà molto utile nella fase di inseminazione del lievito.

A questo punto procediamo ad una prima verifica del lavoro svolto: la prima cosa da fare è controllare la densità mediante densimetro, appunto. Una volta lavato per bene (ottimo sarebbe disinfettarlo mettendolo a bagno con dell’ipoclorito di sodio) avendo l’accortezza di toccarlo con le mani solo nelle zone che non verranno a contatto col mosto, immergiamo il densimetro all’interno del fermentatore. In alternativa, io consiglio di estrarre un po’ di mosto dal rubinetto e immergere il densimetro nell’apposito cilindro. Io seguo il secondo metodo, così elimino il rischio di contaminazioni o la dimenticanza dello strumento all’interno del fermentatore(può succedere),ovviamente il contenuto del cilindro, alla fine delle mie valutazioni, lo butto via. Il valore di densità misurato e il volume di mosto ottenuto ci daranno un’idea della quantità di acqua da aggiungere per ottenere il volume e la densità iniziale voluti. Può accadere che la resa non sia quella voluta, in pratica che il volume di mosto ottenuto sia inferiore a quello preventivato. In questo caso la diluizione o meno con acqua è una questione di scelte: diluendo con acqua minerale fredda otterremo una birra meno alcolica e meno amara, cosa che potrebbe essere accettabile per una birra da pasto, ma probabilmente deleteria per una birra da meditazione. L’ideale sarebbe fare più attenzione nel lavaggio delle trebbie, in modo da non arrivare a questa scomoda incombenza.

Dopo aver diluito o meno il mosto c’è un ultimo passaggio da fare prima dell’inseminazione del lievito, attenzione, assolutamente prima. Prendiamo una bottiglia, anche di plastica, purché pulita e in buono stato, e la riempiamo con un litro di mosto SENZA lievito, la tappiamo immediatamente e la mettiamo in frigorifero. Non va aperta per annusare e per nessun motivo. Lasciamola al suo posto fino a quando arriverà il suo momento di utilizzo.  
 

domenica 17 aprile 2016

I viaggi del Maltobirraio_Beer Festival di Grazzano Visconti


Ed eccoci ad un nuovo appuntamento con “I viaggi del Maltobirraio”.

Appena rientrati da un weekend full immersion nel mondo birraio, sono qui, pronto per scrivere e descrivere ciò che questo viaggio mi ha regalato, sperando di trasmetterVi alcune di queste emozioni provate. Questa volta siamo stati al Beer Festival organizzato da “Beerinba” nel castello di Grazzano Visconti situato nel comune di Vigolzone in provincia di Piacenza. Una location affascinante nell’aspetto e nelle strutture. Trattasi di un castello la cui costruzione risale al 1395 inizialmente di proprietà della famiglia Anguissola, fino al 1870, cioè fino alla morte del conte Filippo, che non avendo eredi, lasciò il castello alla moglie Fanny appartenente ai  Visconti di Modrone, tuttora gli attuali proprietari. Intorno al castello esiste un vero e proprio villaggio in stile medievale, che oltre ad essere meta turistica, ospita all’interno del borgo, botteghe artigiane e punti di ristoro, e spesso viene animato con rievocazioni storiche e feste in costume.

Ma siamo qui per parlare di birra…e quindi:  nel cortile del castello erano presenti 14 birrifici artigianali più il Birrificio Ex Fabbrica proprio di Grazzano Visconti, inoltre una cucina che offriva dei primi, oltre a grigliate di carne e patatine fritte, ma per far compagnia alle varie degustazioni, Ilmaltobirraio, ha scelto un simpatico omone paffuto dalle rosse guanciotte che riempiva panini con la mortadella di Bologna tagliata al momento sotto gli occhi di tutti; l’aquolina in bocca, ovviamente, l’ha fatta da padrone.

La simpatia dei birrai e l’estrosità degli stand hanno reso difficile la scelta su chi far ricadere la prima visita, ma poi una frase scritta su un telone si è imposta su tutto il resto perciò…si sono potute aprire le danze! La frase recitava: “Chi beve birra ha ragione” e quindi…come darle torto! Si è trattato del Birrificio Diciottozerouno  di Oleggio Castello (NO) che offrivano quattro birre di loro produzione delle cui ne abbiamo assaggiate due: Ruggine, un American Pale Ale ambrata con una consistente nota amara, caratterizzata inoltre da un’intensa luppolatura e da sentori agrumati; e poi Caraibi, una pilsner a bassa fermentazione bionda e rinfrescante caratterizzata da un invasione di profumi floreali. Il secondo stand che ha solleticato l’attenzione del Maltobirraio è stato Matildica , i manifesti, come l’etichetta sulla bottiglia, si intonava perfettamente con la struttura nella quale eravamo, con uno stile medievale ed una dedica speciale alla contessa Matilde di Canossa(1046-1115), una birra artigianale brassata con acqua di sorgente, malto d’orzo, miele biologico della Toscana, luppoli pregiati, lievito dell’abbazia di Orval e alcune spezie segrete usate nel medioevo. Ingredienti tutti raccolti esclusivamente in Italia, ma esportati in Vallonia(Belgio) dove avviene la produzione di questa birra dal colore rosso ambrato con un volume alcolico pari al 7%. Dopodichè siamo tornati subito in Italia passando per La Buttiga birrificio di Piacenza dove abbiamo assaggiato Psycho, una IPA caratterizzata da un intenso bouchet composto da fiori tropicali, agrumi e frutto della passione; ricca di luppoli americani e oceanici ben bilanciati dai malti caramellati che invadono piacevolmente la bocca, e Polka, una bionda Ale dal colore giallo carico, anche lei caratterizzata da essenze floreali molto più delicate; un gustoso sapore maltato arricchito da note di frutta gialla ben equilibrati dai luppoli. Passeggiando tra le botteghe e le vie del borgo medievale, sempre sorseggiando le varie birre presentateci in questo splendido festival di sapori, finalmente andiamo a trovare i “padroni di casa” il Birrificio Ex Fabbrica di Grazzano Visconti dove stavolta abbiamo assaggiato una Stout dal nome Oro Nero, una birra con un bel colore “tonaca di frate” con una schiuma cremosa e finissima; appena premiata all’ultimo concorso Slowfood  questa birra sparge un aroma rotondo e caramellato con note di caffè, liquirizia e cacao. E una Weiss dal colore giallo paglierino, prodotta un 60% di malto di frumento e un 40% di malto d’orzo presenta un corpo pieno e un gusto fruttato con note di spezie nel suo aroma. Ed infine la “bussola” ci ha diretti verso il Birrificio Solidale Aurora dove tra le tre proposte abbiamo scelto di assaggiare laPrima, una Blonde Ale ad alta fermentazione, delicata e beverina con un gusto leggermente maltato e con un aroma pronunciato di luppoli, con solo un 4% di volume alcolico rimane fresca e dissetante; e poi una inDhyana, birra ambrata in stile Pale Ale, caratterizzata da un aroma fruttato e speziato al cardamomo, offre un impatto delicato con un retrogusto amarognolo, la schiuma densa e persistente esalta il particolare gusto delle note esotiche.


Altri birrifici presenti erano: Veet Birrificio Artigianale Nobili, Birrificio di Legnano(MI), I tre Bagai, anche loro di Milano, Padus, Gaia, Birrificio Castagnero, Birrificio Legnone, JEB un microbirrificio di Biella, Hibu Brewery e il Birrificio Campi Flegrei. Purtroppo Ilmaltobirraio, non ha potuto visitare tutti i birrifici e assaggiare tutte le birre, sarebbe stato un po’ troppo, perciò si scusa con chi non ha avuto il piacere di intrattenersi, che certamente se troverà in altri raduni saranno i primi della lista, o magari verranno visitati personalmente. Comunque sia il weekend è stato divertente ed emozionante, oltre alle birre, davvero ottime, è stato piacevole vedere tanti volti sorridenti, molti accompagnati anche da bambini che dai più piccoli ai più grandicelli avevano la possibilità di scorrazzare felici tra gli spazi verdi e i vicoli del villaggio medievale intorno al castello. La serata di sabato è stata allietata anche da una divertente animazione di musica country che ha reso più vivace l’atmosfera.

Purtroppo come ogni viaggio, arriva il momento di riprendere la strada che riporta a casa, ma cogliendo l’occasione per fare i complimenti agli organizzatori di questa manifestazione, attendiamo il prossimo festival, per una nuova esperienza tra birre e sorrisi.













mercoledì 6 aprile 2016

La Filtrazione


Dopo la fase di ammostamento, ecco che si arriva alla fase detta: filtrazione. La durata e la facilità del procedimento di filtrazione dipende da come è stata eseguita la macinazione dei grani di malto. Se vi ricordate abbiamo detto di frantumare i chicchi facendoli scoppiare senza polverizzarli, in modo che proprio le trebbie potessero diventare il filtro naturale del mosto, appunto. Comunque sia, anche nel migliore dei casi, in teoria, la tempistica non dovrebbe essere meno di un ora circa. Questo è il tempo adatto, che serve alla miscela per separarsi e al birraio per sciogliere tutti gli zuccheri dai chicchi di malto mediante un risciacquo delle trebbie con acqua calda. Per questo procedimento potrete usare un sacco costituito da una rete di nylon con maglie adeguatamente fitte, o anche di lino, meglio se non tinto, adagiato all’interno di un secchio col fondo bucherellato. Iniziata la fase, iniziate ad esaminare il mosto che scende, può accadere che il mosto filtrato sia piuttosto torbido, o abbia troppi corpuscoli al suo interno: in questo caso rifiltrate, cioè versate di nuovo il liquido ottenuto sul filtro. Il mosto comincerà a scendere lasciando sedimentare i frammenti dei chicchi di malto esaurito, che sono appunto, le trebbie del malto. Prima che queste trebbie affiorino completamente dal liquido inizieremo il loro lavaggio con acqua calda fino all’estrazione della maggior quantità di zuccheri possibile. Per questa procedura il letto di trebbie che si formerà, non dovrebbe mai essere mosso, in modo da evitare che si creino vie preferenziali dove l’acqua potrebbe trovare una “via di fuga” lasciando così zone ricche di zuccheri tra le trebbie non “lavate” e altre zone, ormai senza più nulla da sciogliere, dove l’acqua uscirebbe tale e quale a quella versata. Si inizia riscaldando la quantità di acqua prevista per il risciacquo, il relazione alla quantità di birra da produrre, a 78°C. Quindi, una volta raccolto il mosto, o meglio, poco prima, si innaffiano con cautela le trebbie con quest’acqua. Ottimo sarebbe compiere questa operazione con un piccolo innaffiatoio, proprio per rendere lo spargimento più omogeneo e delicato, garantendo una migliore efficienza all’estrazione e inoltre, per evitare che l’aria penetri all’interno del letto di trebbie ossidando le sostanze che poi passeranno nella birra rendendola più scura. Oltre alla delicatezza dello spargimento, attenti sempre, a non creare canali preferenziali, facciamo in modo di mantenere un velo d’acqua sulla superficie del letto. Chiaramente la durata sarà in funzione della velocità del filtro e quindi tanto più lento sarà il filtro durante il risciacquo, tanto più completa sarà l’estrazione. Per sapere quando potrete terminare il lavaggio delle trebbie, controllate che la densità del liquido raccolto non scenda sotto 1.008. Attenzione: il lavaggio non è un’operazione strettamente necessaria ma se è mal condotta può essere deleteria. Infatti se è eccessivamente prolungata, oltre ad abbassare il contenuto di zuccheri, può estrarre un eccesso di tannino dando alla birra un gusto sgradevole. Piuttosto è consigliabile lasciare degli zuccheri non estratti e soprattutto…non avere fretta!!
Inoltre, una volta finito questo processo, le trebbie, volendo, possono avere un ulteriore utilizzo. Infatti trattandosi di cereali, possono diventare un piatto prelibato per maiali e galline, ma, perché no, possono essere usati anche per la panificazione. E per darvi una chicca, dato che è appena passato il periodo di Pasqua, in un piccolo birrificio che sono andato a visitare, ho avuto il piacere di assaggiare un ottima colomba, fatta proprio con le trebbie della birra...Una bontà!
 

giovedì 24 marzo 2016

I viaggi del Maltobirraio_L inconsueto Birrificio Bustese


Ieri sera sono andato in un piccolo borgo di una cittadina in provincia di Varese. Borsano, frazione di Busto Arsizio, dove per un periodo, mi è capitato di passare spesso davanti ad una serranda, cui l’insegna recita “L’Inconsueto Birrificio Bustese”. Un edificio classico della zona, a prima vista datato negli anni, ma altresì mantenuto con cura. Ciò che tormentava la mia curiosità era una serranda sempre abbassata, al limite del pensiero di funzionalità, o meno, dell’esercizio. Fortunatamente la smentita, presto si è fatta riconoscere, alche, chiedendo informazioni, a chi la zona la conosce meglio di me, scopro l’effettivo orario di apertura al pubblico: le 19:00. (escluso il lunedì) Entusiasta di verificare l’esattezza delle informazioni ricevute, nel varcare la porta del civico 1 di via XXIV Maggio, ho trovato al suo ingresso un piccolo gioiello di legno e mattoni, che mi ha accolto come le braccia di una mamma. Piccolo e rustico, al suo interno, il locale ed i suoi gestori, si sono presentati con molta gentilezza nei miei confronti e degli ospiti che vi erano al suo interno. Mi sono accomodato e, menù alla mano, ho scelto di assaggiare un paio delle cinque diverse birre elencate, tutte prodotte dal Mastro Birraio Rossi Valentino, nonché proprietario dell’attività dal 2004, che purtroppo non ho avuto, in questa occasione, l’opportunità di conoscere personalmente, a differenza della Signora Etta, che, con garbata gentilezza si è presa carico delle mie richieste.

L’Inconsueta, omonima del birrificio appunto, una bionda fresca ed avvolgente nei profumi e dal sapore lievemente affumicato, racchiusi nel 4,5% di volume alcolico, nascosti da una schiuma morbida, pannosa e molto persistente, nati da una ricetta personale del Mastro Valentino. Dopodiché mi sono tuffato in un amaro sapore tipico anglosassone datomi dalla SpeciAle English, come recita il menù appunto, una rossa con un 5,5% di gradazione, anche lei dotata di una bellissima schiuma persistente, molto piacevole al palato. Il tutto accompagnato da un tagliere di salumi e formaggi tipici, serviti insieme a del mosto di vino dalla consistenza simile al miele, ma dal gusto inequivocabile del malto, cui non riesco a trovare aggettivi per spiegarne la bontà. Infine, dato il periodo pasquale in cui ci troviamo, non ho saputo rifiutare la proposta della gentile Signora Etta, e quindi mi sono lasciato coinvolgere nell’assaggiare una fetta di colomba, fatta con trebbie di malto e con birra al miele di castagno servita con del mascarpone. Già, il mascarpone, un classico voi direte, ed è proprio qui che vi sbagliate; semplice agli occhi, ma che al palato ha dato vita ad una, come dire, “inconsueta” e sorprendevole festa di sapori creata appunto dalla moglie del Signor Rossi. No, il trucco del mascarpone non voglio svelarlo, perché vi rovinerei la sorpresa nel caso vi venisse in mente di andare personalmente in questo birrificio; sarebbe come raccontarvi il finale di un film che non avete ancora visto…o no?!? In quanto alla colomba, non vi ho detto che era buona, vi dico solo che ne ho comprata una intera da portare a casa.

Quella che vi ho raccontato è stata la mia picccola esperienza visitando questo, secondo me, fantastico seppur piccolo locale, dove ho avuto il piacere di conoscere nuovi sapori e di provare belle emozioni. Ovvio tutto è soggettivo, proprio come la fantasia, che ci permette di creare, ciò che l’istinto di ognuno di noi, suggerisce. Spero di riuscire, a breve, a raccontarvi una nuova esperienza, ma in tutta onestà penso anche, che all’Inconsueto tornerò presto.

I viaggi del Maltobirraio


Prendendo una pausa sulla procedura di birrificazione, vorrei inserire una piccola rubrica, che non vuol avere un concetto “pubblicitario” nel senso specifico della parola stessa, ma che vuol informare, o per meglio dire, raccontare luoghi e realtà, descrivere emozioni e sensazioni, che ricevo nel visitare i vari birrifici, pub o manifestazioni inerenti comunque, alla nostra bevanda preferita. In questi articoli “saltuari”, darò, talvolta, dei giudizi, che saranno comunque personali. Non mi occupo di recensioni, non sono un critico, né tanto meno un professore, ma solo un piccolo birraio appassionato e a volte un po’ “malto”, perciò non mi soffermerò mai troppo, nemmeno sulla descrizione tecnica dell’una o dell’atra birra; come ho detto prima, vorrei raccontare più di tutto l’esistenza di piccole o grandi realtà inerenti alla birra e le emozioni che sapranno suscitarmi. Mi piacerebbe l’idea di scoprire anche i più piccoli “vicoletti” nascosti che, con passione e dedizione, animano questo mondo, dando sfogo alla fantasia e alla creazione di successi qualitativi, più che a quelli strettamente economici. Il nostro oro, versiamolo nei bicchieri e…cin cin.

mercoledì 23 marzo 2016

L’Ammostamento


Una volta maltati i cereali, e poi macinati, si arriva ad un’altra fase molto interessante riguardante la produzione della birra. L’ammostamento.

L’ammostamento è l’operazione durante la quale si estraggono gli zuccheri dal malto portandoli in soluzione nell’acqua riducendo, eventualmente, il contenuto proteico del mosto che si va formando. Lo scioglimento degli zuccheri e il degradarsi delle proteine, è dovuto agli enzimi, che formandosi durante il processo di maltazione, sono ora divenuti pronti ad agire sul chicco di malto. Di questi, due servono ad estrarre gli zuccheri dal malto rendendoli solubili nell’acqua, mentre il terzo si adopera per il degrado delle proteine e per conferire maggiore stabilità alla birra. Gli enzimi che estraggono gli zuccheri si chiamano alfa amilasi e beta amilasi. Il primo svolge un lavoro più grossolano staccando pezzi relativamente grossi dall’amido maltato, le maltodestrine; mentre la beta amilasi, l’altro enzima, con la sua precisione, va a rilevare soltanto frammenti costituiti da due zuccheri semplici, il maltosio.

Questi due prodotti, maltosio e maltodestrine, sono in qualche modo alternativi perché si ottengono dall’azione di due diversi enzimi sullo stesso materiale, che è l’amido. Favorendo l’azione delle beta amilasi potremo ottenere un mosto con alte concentrazioni di zuccheri fermentescibili, che in sostanza significa maggiore alcol nella birra, se invece favoriamo l’azione dell’alfa amilasi andremo ad ottenere una maggiore concentrazione di maltodestrine, che invece trasmetterebbero una maggiore corposità alla birra ed un pizzico di dolcezza in più. Già, perché si parla di zuccheri estratti dal malto, in effetti se avete provato ad assaggiare un chicco vi siete subito resi conto di quanto sia dolce il sapore, ma ciò non decreta una regola sulla “dolcezza” della birra; anche se il mosto è dolce, non è detto che lo sia anche la birra. Sì, perché solo il dolce proveniente dalle maltodestrine è quello che resiste al processo di fermentazione.

Il metodo più utilizzato per differenziare queste due attività è quello di agire sulla temperatura. Ogni enzima agisce al meglio ad una precisa temperatura, ad esempio 65°C, ciò non vuol dire che a pochi gradi di differenza questi enzimi non agiscono più, semplicemente a quelle temperature la velocità della reazione che inducono, sarà minore, non togliendo che invece altri enzimi ne potrebbero trarre vantaggio. Sembra complicato, ma non lo è, basta farsi aiutare semplicemente da un termometro, così da tenere sempre sotto controllo la temperatura desiderata, in base alle caratteristiche che vorremo imprimere al prodotto, tenendo presente anche, che temperature troppo alte farebbero addirittura cessare l’attività di questi enzimi. Mantenendo la miscela ad una certa temperatura per un certo periodo di tempo, ad esempio mezz’ora, potremo favorire la reazione di un certo enzima, mentre gli altri nel frattempo rimarranno inattivi, o se attivi, alla minima velocità. Parlando praticamente, ad una temperatura di circa 60°C sarà la beta amilasi ad essere l’enzima più attivo, mentre portando il mosto a 70°C daremo più velocità di reazione all’alfa amilasi. A questo punto, termometro alla mano, non resta che “giocare”; voglio una birra più corposa o una birra più alcolica?

lunedì 14 marzo 2016

La macinazione


Dopo aver visto i vari ingredienti principali per la produzione della birra, eccoci giunti al momento di ad andare a descrivere, passo per passo, le varie fasi di procedimento.

Una volta maltato l’orzo, o il cereale scelto, si deve lasciar riposare per circa un mese prima del possibile impiego. Una volta trascorso questo tempo, ecco che il primo passo da eseguire per l’utilizzo del malto è la macinazione. I chicchi e la scorza esterna dovrebbero essere macinati senza che siano frammentati eccessivamente poiché, durante la filtrazione, fungeranno, appunto, da filtro naturale. La grandezza dei frammenti ottenuti dal chicco, perciò, dovrebbe essere di un paio di millimetri. La teoria della macinazione vuole che tutti i frammenti siano di egual diametro massimo: il meccanismo consigliato è quello della compressione del chicco da parte di due superfici rigide che portano allo “scoppio” del chicco senza polverizzarlo. Infatti mentre una macinazione troppo grossolana non permette la giusta estrazione degli zuccheri dal chicco, una troppo fine non consente un’adeguata chiarificazione della birra e intaserebbe il letto filtrante delle trebbie stesse, che invece risulterà, anch’esso, essere un passo determinante durante poi la filtrazione. Un'altra regola è quella di macinare il malto poco prima del suo utilizzo, questo per due semplici motivi: il primo è che certi aromi si possono perdere se il chicco macinato viene lasciato all’aria per troppo tempo, il secondo è che se la macinazione viene fatta presso mulini industriali piccoli insetti che vivono in questi ambienti possono infestare il macinato rendendolo inutilizzabile nel giro di pochi giorni. Pochi sono i mulini adatti a questo scopo. Per ottenere questo tipo di macinazione sarebbe ideale acquistare, da un rivenditore, un mulino per malto, che sono strumenti più o meno grandi, ma ne esistono anche in formato casalingo, composti da due cilindri rotanti che schiacciano il chicco del malto. Un attrezzo strettamente casalingo potrebbe essere un macinino per caffè regolato in modo che la distanza tra la macina e la base sia circa la metà del diametro dei chicchi, dunque circa un millimetro; evitando quindi di sminuzzare troppo le scorze, che, come dicevamo prima serviranno poi per la filtrazione del mosto, e che comunque contengono sostanze amare le quali sarebbe meglio non estrarre. Il macinato ideale, quindi, ha le scorze ancora in forma di pagliuzze, poca farina e la massima quantità di semolino piuttosto grosso. Per ogni litro di birra di 12°P si macinano, in genere, circa 200 grammi di cereale e, in diretta relazione al grado, di più per le birre più forti e meno per le più deboli.

sabato 5 marzo 2016

Che Malto vuoi?


Dopo aver approfondito una ad una, le materie prime necessarie per la produzione della birra, andiamo ad esaminare anche le varie tipologie degli ingredienti. Per chi già si è cimentato nella produzione birraia, o per chi magari lo farà in futuro, sicuramente avrà provato a mescolare più tipi di malto. Un po’ come una pozione magica, ognuno può aggiungere o diminuire a piacimento le dosi di un tipo di malto piuttosto che di un altro, per trovare la “propria” formula in base ad ogni tipo di palato.

Per una giusta germogliazione si controlla sia lo sviluppo delle radichette, che si formano alla base del chicco, sia lo sviluppo della “piumetta”, che avviene sotto la scorza del chicco. Questa deve raggiungere per il malto chiaro da una metà ai 2/3 della lunghezza del chicco, per il malto scuro da 2/3 a un intero. Per non far perdere troppa sostanza al cereale, si deve evitare che la piumetta fuoriesca dalla cariosside, finendo per formare quelli che in gergo si chiamano “ussari”. Durante la germogliazione si può far salire la temperatura fino a 18/20°C, evitando temperature più alte, che potrebbero conferire al malto e poi alla birra un aroma meno fine. Il chicco di malto ha raggiunto il giusto grado di “disgregazione” quando, piegato sull’unghia, non si spezza più, e quando il suo corpo farinoso, spalmato sull’unghia, assume l’aspetto del gesso. A questo punto viene denominato “malto verde”, e deve essere essiccato per interrompere la germogliazione, poiché a questo punto il contenuto del chicco si è già sufficientemente disgregato: è stato cioè reso solubile in acqua grazie agli enzimi che l’embrione ha prodotto. Questi enzimi poi continueranno in sala cottura la loro opera, che viene denominata “saccarificazione” e che consiste nel fatto che tutte le sostanze amidacee vengono trasformate in zuccheri, anch’essi solubili in acqua. Questi rappresentano la parte più importante del mosto. Gli enzimi sono sensibili al calore, specialmente se il contenuto di umidità è elevato. Perciò per ottenere un buon malto, è indispensabile procedere ad un essiccamento molto prudente, a temperature intorno ai 30-40°C durante le prime 12ore, in forno ben areato, per poi salire durante le successive 12-18ore a temperature intorno ai 60-70°C. Infine si essicca per altre 6-12ore a 80°C, temperatura alla quale in ambiente secco gli enzimi non vengono indeboliti, e alla quale la colorazione del malto rimane ancora molto chiara. In questo modo si ha la produzione del malto chiaro tipo Pilsen.

Se si vuole ottenere invece un malto per birre scure, la temperatura finale dovrà essere elevata, a valori tanto più alti quanto maggiore si vorrà che sia la colorazione della birra. Oltre i 110°C si ottengono però malti che conferiscono alla birra un sapore di bruciato che è bene evitare. Il malto essiccato, chiaro o scuro che sia, si lascia poi raffreddare per procedere subito all’eliminazione delle radichette, che darebbero alla birra un sapore meno fine e che ne danneggerebbero, al contempo, la schiuma. Per la loro eliminazione si lavora energicamente il malto con mezzi meccanici, o con le mani per piccole quantità, setacciando poi le radichette attraverso un vaglio adeguato, dalla maglia appena più piccola del chicco del cereale. Il malto a questo punto può dirsi stabilizzato permettendo la conservazione a secco anche per molti mesi.

Il malto colorante serve per aumentare la colorazione della birra e si aggiunge in proporzioni del 2-3% , calcolate sul cereale totale impiegato, secondo la colorazione che si vuole ottenere. Si ottiene dal malto chiaro, ancora ricco di enzimi: lo si mette a bagno per cinque o sei ore, con mezzo litro d’acqua per chilo di malto, rivoltandolo di tanto in tanto. Si può anche procedere con del malto verde, ma le radichette bruciate conferiscono al malto colorante un sapore di bruciato più accentuato. Il malto così inumidito viene prima portato a 70°C e tenuto a questa temperatura per un ora, al fine di ottenere una certa saccarificazione del contenuto del chicco. Poi si porta lentamente la temperatura a 200°C e si controlla la colorazione dimezzando un chicco: il corpo farinoso dovrà raggiungere un leggero color ambrato, ma non deve diventare nero, poiché donerebbe decisamente un aroma di bruciato, anche se questo tipo di malto colorante, senza attività enzimatiche e senza estratti fermentabili, viene usato per la produzione delle Stout.

Esiste anche un malto chiamato Caramello o Cristal  e lo si produce prendendo del malto ricco di proteine e invece di essiccarlo lo si porta a 65°C immerso in acqua per due ore. A questa temperatura gli zuccheri divengono caramello e si arricchiscono di maltodestrine. Solo a questo punto si essicca a 80°C  per il caramello chiaro o a 120°C  per quello più scuro. Impartisce alla birra finita un tipico gusto di noce. Un consiglio è, però, di non usarne più del 30% rispetto ai malti chiari. Il Chocolate invece è un malto molto proteico essiccato fino a 230°C  dal sapore molto piacevole e caratteristico.

A questo punto lo spazio rimane solo per la fantasia in rispetto dei propri gusti e di ciascun palato. Le mescolanze, le dosi e le percentuali sono una variabile infinita a cui tutti potrebbero trovare la giusta collocazione sensoriale, ed ognuno potrà sperimentare la “pozione magica” più gradita.

domenica 28 febbraio 2016

Materie prime: Il Lievito


Ultimo, solo per tempistica d’uso, ma non per importanza, è il lievito. Altra materia prima, per la produzione della birra.

Il lievito è un microrganismo, un fungo grande pochi millesimi di millimetro, il quale respira o fermenta a seconda dell’ambiente in cui si trova, e si nutre e produce delle sostanze che si trovano poi nell’ambiente in cui vive, quali alcol etilico, anidride carbonica e cosi via. Con le sue reazioni biochimiche, libera energia che si trasforma in calore. È presente, come tutti i microrganismi, un po’ ovunque; ad esempio, basta lasciare un liquido contenente zuccheri, all’aria, perché questo si metta a produrre bollicine di anidride carbonica, cambi aroma e diventi limpido appena fermentato. La fermentazione in questo caso, però, si dice essere spontanea. Questo fenomeno è stato scoperto, dall’uomo, già molti millenni fa, imparando ad avere un controllo su di esso, aggiungendo al mosto il lievito, spesso ricavato dalla fermentazione precedente, così da non lasciare più nulla al caso, rendendo il processo costante e garantendo così, risultati finali di ottima qualità. Il lievito è uno degli esseri viventi più antichi in natura. La sua creazione risale ad oltre un miliardo di anni fa, quando una combinazione di componenti chimiche si è ordinata in una catena di amminoacidi e nella nota elica degli acidi nucleici, ai quali si deve l’informazione cromosomica e quindi la continuità della specie. Il lievito si usa anche per altre sostanze alimentari come il pane, il vino, i distillati. Per ogni prodotto, ovviamente, si usa un lievito specifico, sempre della famiglia dei saccaromiceti. Ognuno di questi ha la facoltà di produrre un aroma tipico che caratterizza il prodotto finale. I tipi di lievito usati per la birra, in genere, sono due, a seconda del tipo di bevanda che si vuole produrre: Saccharomyces cerevisiae, per la birra ad alta fermentazione e Saccharomyces carlsbergensis per produrre, invece, birra a bassa fermentazione. Come abbiamo detto, entrambi si nutrono, tra l’altro, degli zuccheri presenti, ad esempio il maltosio, che è quello che si trova nel malto o il saccarosio che è semplicemente lo zucchero da cucina. Ciò che li differenzia invece, è la temperatura a cui agiscono, il gusto che conferiscono alla birra e la sede in cui si trovano a fine fermentazione. Il Saccharomyces cerevisiae è stato il primo, era l’unico disponibile fino a 180 anni fa, per uso birraio viene impiegato ad una temperatura tra i 18°C e i 22°C e a fine fermentazione si ritrova alla superficie della birra, per questo viene definito “lievito ad alta fermentazione” e dona alla birra un gusto morbido e rotondo. Il Saccharomyces carlsbergensis, invece, è nato dall’esigenza delle industrie birraie di avere, sia per motivi economici che di contaminazione della birra, una fermentazione a basse temperature. Questo, alla fine della fermentazione, si ritrova sul fondo del fermentatore e per questo può essere facilmente eliminato, viene impiegato a temperature tra i 4°C e i 10°C anche se è in grado di agire anche a temperature superiori e infine, questo lievito conferisce alla birra un gusto più secco. Una volta disidratati e non contaminati con altri microrganismi i lieviti si conservano a lungo anche a temperatura ambiente, in questo modo rendono molto più semplice la commercializzazione. Basta poi, mettere il lievito secco in un bicchiere d’acqua, preferibilmente tiepida, per riattivarlo e procedere quindi “all’inseminazione”. Il birraio casalingo, può ottenere il lievito in diversi modi, ma quello più consigliato è quello di acquistarlo in negozi specializzati, proprio per non rischiare di far diventare inutili ore e ore di preparazione, rovinando la birra per colpa di un lievito “non buono” o contaminato da fattori esterni, solo per risparmiare pochi euro. In commercio, lo si trova sotto forma granulare chiuso in bustina o, un po’ più costoso, in forma liquida, che va, però, necessariamente tenuto al fresco.

Il lievito è una vera e propria fabbrica di enzimi, molecole biochimiche che permettono di scomporre e ricomporre quelle sostanze che sono indispensabili alla vita mediante la digestione, l’assimilazione e la trasformazione in materia organica.

domenica 21 febbraio 2016

Materie prime: Il Luppolo

Il luppolo è una pianta della famiglia delle orticacee, che produce dei fiori molto aromatici; cresce anche selvaticamente, ma la si coltiva facendola rampicare su fili appesi a strutture palificate di sei metri d’altezza. È annuale e si sviluppa da una rizoma, spunta in primavera e la maturazione dei fiori avviene tra agosto e settembre quando, tagliate alla base, viene poi privata dei singoli fiori. Con lo svilupparsi, però, la pianta, crea due tipi di fioritura: maschile e femminile. Per la produzione birraia, servono le infiorescenze “rosa” le quali vengono liberate dai fiori maschili circostanti, che sistematicamente vengono estirpati, proprio per evitarne la fecondazione e quindi la produzione di semi, che le farebbero perdere una parte del prezioso polline. Questi fiori servono a dare alla birra caratteristiche peculiari e insostituibili, quali il gusto amaro e il tipico aroma e profumo. Il primo rende la birra una bevanda dissetante, il secondo la rende invece, gradevole al palato e all’olfatto.

I così denominati, alfa acidi, sono alcuni composti che conferiscono il gusto amaro, mentre numerose altre sostanze diverse, presenti nei fiori sono le “autrici” degli aromi della birra. Le proprietà dei composti che danno amaro e aroma oltre all’essere differenti tra loro, spesso risultano inconciliabili tra loro. Gli alfa acidi, vengono estratti con una certa difficoltà dal fiore. Ad esempio, dopo una bollitura di novanta minuti, solo il 30% di questi viene solubilizzato nel mosto, tuttavia aumentando i tempi di cottura, l’incremento percentuale risulta essere minimo. Necessitano di un tempo di estrazione piuttosto lungo, ma si tratta, per fortuna, di sostanze che resistono al calore, anche se ossidandosi all’aria, a temperatura ambiente, perdono progressivamente le loro proprietà amaricanti. Al contrario, i prodotti aromatizzanti perdono molto più facilmente le loro caratteristiche, dopo cotture anche relativamente brevi. Per questi motivi, si è escogitato un metodo, per rendere conciliabile l’introduzione dei due diversi prodotti nello stesso mosto, differenziando, cioè, il momento “dell’aggiunta”, a seconda del tempo di cottura a cui è predisposto un fiore piuttosto che un altro. Parlando in termini pratici, in una cottura di 90 minuti potremmo aggiungere prima un luppolo amaricante che è più resistente al calore, e verso la fine si potrebbe andare a conferire alla birra un sapore più fine e delicato, sia al palato che all’olfatto, un fiore aromatizzante evitando, così, di farlo rovinare dalla cottura stessa. Questa, anche se risulta essere la procedura più diffusa, non è l’unica. Alcune birre di prestigio, ad esempio, evitano il luppolo aromatico, mentre altre, non meno importanti, sperimentano introduzioni più numerose, di diversi fiori, giocando sulle tempistiche.

Il luppolo contiene inoltre la giusta dose di tannini, che coagulano le proteine che contribuiscono alla chiarificazione naturale della birra, in più, migliora non solo la stabilità della schiuma, ma anche della birra stessa, frenando la riproduzione dei batteri, tanto da essere , addirittura, usato nel campo dell’industria farmaceutica.

Il suo utilizzo è stato introdotto ufficialmente, solo alla fine del primo millennio d.C., prima venivano usati altri ingredienti come la mirica, l’alloro e il rosmarino. Verso il XV secolo, però, quasi ovunque, si vietò, per la fabbricazione della birra, l’uso di ingredienti che non fossero: acqua, cereali e luppolo. Consuetudine, questa, rimasta fino ad oggi.

domenica 14 febbraio 2016

Materie prime: Il Malto


Abbiamo detto che il malto è il prodotto dato dalla “maltazione” dei cereali (vedi Art. “Materie prime: I cereali (Malto)”). Quindi, una volta descritti i cereali nelle loro forme e caratteristiche, andiamo a vedere il processo che compiono per diventare malto. Con il nome malto si identifica un cereale che è stato sottoposto ad un inizio di germinazione, grazie al quale il contenuto dei suoi chicchi diventa solubile e  perciò estraibile mediante acqua. Il malto può essere ottenuto da qualunque cereale, ma quelli che si prestano meglio sono: l’orzo, in primis, ma anche frumento, segale e avena. Diciamo che gli altri, avendo dei germogli più fragili, sono meno indicati.

Il fine di questo processo, chiamato “maltazione”, oltre a quello di far germinare i cereali, è quello di permettere ai chicchi di produrre le amilasi e le proteasi, cioè gli enzimi che in seguito degraderanno: l’amido i primi, e la matrice del chicco stesso, i secondi. I chicchi germogliati, vengono poi essicati, con metodi differenti, per differenziare poi i malti.

La prima fase della maltazione, dopo aver accuratamente selezionato i chicchi, è quella di metterli in ammollo per circa 48 ore, con delle pause per l’ossigenazione, orientativamente da 8 a 12 ore, della durata di un’ora ciascuna. Trascorso questo periodo si verifica l’assorbimento dell’acqua schiacciando il chicco sull’unghia: se si sfalda come gesso umido si è a buon punto e si permette al chicco di germogliare tenendolo in ambiente umido, ma non più immerso, e a temperatura costante.nelle malterie il chicco viene quasi continuamente rimescolato in modo da far raggiungere a tutta la massa dell’orzo la stessa temperatura e umidità e per evitare l’infeltrimento delle radichette. Così condizionato tutto il cereale germoglia in un brevissimo intervallo di tempo, rendendo omogenea tutta la fase, garantendo così anche la miglior resa del malto.

Da ogni chicco esce una radichetta che testimonia della germogliazione e, parallelamente, della parziale degradazione dell’amido. La crescita della radichetta indica il grado di trasformazione raggiunto dal chicco: più è lunga, più matrice proteica e amido sono degradati. Essa non dovrebbe mai superare un terzo della lunghezza del chicco e solo per ottenere del malto scuro si può arrivare alla metà del chicco. A questo punto il malto viene essicato e vengono poi tolte le radichette. L’essicazione è utile perché assolve almeno tre funzioni: la prima, quella di togliere l’umidità in eccesso fino a farla arrivare al 3-4%; la seconda invece, è quella di impartire una particolare colorazione e gusto al malto, e di conseguenza, alla birra che si otterrà; in fine, ma non per merito, c’è quello di aumentare la capacità di conservazione del malto.

La durata della essicazione è di circa 48 ore. La temperatura a cui viene essicato determina il gusto e il colore del malto. Con l’aumentare della temperatura di essicazione, parallelamente, il colore si fa ambrato, dorato, marrone o nero. La temperatura, ha però, il difetto di degradare enzimi presenti nel malto: la regola generale è che più è alta la temperatura di essicazione minore diventa la sua capacità di liberare maltosio e maltodestrine nella fase dell’ammostamento, ma questo lo praticheremo in seguito. Per questo motivo sarà quindi necessario usare sempre delle miscele di malti chiari e scuri in cui i primi per dare la capacità enzimatica, i secondi per andare a conferire gusto e colore. La capacità colorante di un po’ di malto scuro, a volte è più importante della sua mancanza di enzimi, infatti pochi etti di malto scuro valgono a colorare fino a 25litri di birra senza apprezzabili riduzioni dell’attività svolte dagli enzimi. Se assaggiate il malto crudo, specie se chiaro, lo troverete dolce, ciò è dovuto all’azione delle amilasi che, durante la germinazione, hanno già prodotto una piccola quantità di maltosio e maltodestrine. Le proteine all’interno del chicco di malto hanno una struttura che raccoglie e contiene l’amido. Per far agire gli enzimi sull’amido è importante che questa rete sia degradata ad opera delle proteasi, che agiscono sulla maltazione.

giovedì 11 febbraio 2016

Materie prime: I Cereali (Malto)


La seconda, tra le materie prime che andiamo a trattare è il malto.

Che cos’è il malto? Nient’altro che il prodotto dato dalla “maltazione”, appunto, dei cereali. I cereali sono erbacee che, grazie alla clorofilla e all’energia solare, come tutte le piante, riescono a comporre, partendo dall’anidride carbonica dell’aria, gli amidi che si accumulano nei semi. Il birraio utilizza tali amidi trasformandoli in zuccheri grazie all’azione degli enzimi dei cereali stessi, lasciando poi che il lievito li fermenti per produrre l’alcol e l’anidride carbonica della birra.

Per produrre birra, è utilizzabile qualsiasi tipo di cereale, che spesso vengono miscelati tra loro, differenziando le diverse tipologie di birra; ma la scelta delle materie e le diverse quantità dell’uno o dell’altro cereale, sono caratterizzate prevalentemente dalla tipologia di coltivazione locale, che nella maggior parte dei casi viene prediletta. Per cui notiamo che in Europa e in America viene usato molto il mais, in Asia c’è un ovvia prevalenza di riso e il miglio è l’ingrediente preferito del continente africano. Ma il cereale “principe” per la produzione birraia è sicuramente l’orzo, il quale trova sfogo in Germania dove viene utilizzato quasi in esclusiva, insieme ad una piccola percentuale di frumento. L’orzo cresce in ogni regione, da un’altezza che parte dal livello del mare fino a 1600 metri e più. Per questo si presta molto bene quale coltivazione alternativa laddove altri cereali danno uno scarso rendimento. L’orzo permette di ottenere maggior profitto anche quando la coltivazione non è estensiva, in pendenze critiche per gli altri cereali e in terreni difficili. Le regioni che si distinguono per la produzione di orzo da birra, in Italia, sono la Puglia, la Basilicata, il Lazio e la Toscana. Oltre ad essere il più facile e redditizio in campo agricolo, questo cereale risulta essere anche il più usato nel mondo, per la produzione birraia, in quanto, anche il più adatto a trasformarsi in malto attraverso la germogliazione. Non sorprende perciò che, oltre ad essere stato il primo della sua categoria usato dall’uomo per nutrirsi, cronache degli Assiri, risalenti a circa 4000 anni prima di Cristo, raccontano che la prima birra nacque da chicchi di orzo parzialmente germogliati e seccati.

In natura la pianta la pianta si può presentare in due aspetti, che si differenziano in base al numero di file di semi prodotti: l’orzo distico ne presenta solo due, mentre quello con sei o otto file di semi, viene denominato polistico. Per la produzione birraia, ovviamente si usa la qualità migliore, e quindi la prima, che si semina, in genere in primavera e che, data la minor quantità di file, i semi risultano essere più turgidi; ricchi di amido e poveri di proteine. Ogni seme d’orzo, come di qualsiasi altro cereale, contiene una scorta di materiale nutritivo per la germinazione e la crescita della nuova pianta e una certa percentuale di proteine con varie funzioni tra cui quella di trama su cui si regola la disposizione dell’amido nel chicco. Dal punto di vista chimico il materiale nutritivo è costituito da uno zucchero semplice, il glucosio, unito in una lunghissima catena chiamata molecola di amido. Il glucosio, ma non l’amido, è il materiale utilizzato dalle cellule e dai lieviti per il fabbisogno energetico. Partiamo dallo zucchero più semplice, il glucosio, se questo si lega ad un’altra molecola identica, otteniamo il maltosio, zucchero anch’esso fermentabile, cioè utilizzabile dal lievito che, sfruttando la buona capacità dolcificante, gli consente di moltiplicarsi e vivere nella birra. L’unione invece, di una decina o dozzina di glucosi, dà vita ad un altro zucchero chiamato maltodestrina. Questa molecola è meno dolce del maltosio, ma che comunque conferisce al palato, un buon gusto di pienezza e di dolce che viene genericamente descritto come “corpo” della birra. Le maltodestrine non sono però attaccabili dai lieviti e sono quindi note col termine generico di “zuccheri non fermentescibili”. Se andiamo invece ad allungare questa catena di zuccheri fino ad ottenere una specie di trenino fatto di alcune centinaia di migliaia di molecole di glucosio, otteniamo una struttura che chiamiamo amido e che è, quindi, il principale componente, dal punto di vista quantitativo, della nostra materia base: il seme d’orzo. La disgregazione di questa enorme struttura richiede una serie di reazioni chimiche che spezzano la catena fino a strutture più semplici e, dal punto di vista organolettico, più dolci. Inoltre l’amido, per essere attaccato, deve essere liberato dalla maglia di proteine che lo lega, tramite la proteasi. Questa disgregazione avviene durante la maltazione e la prima fase dell’infusione: in sostanza, si passa dall’amido via via fino ad arrivare alle maltodestrine e al maltosio. In base ai cereali scelti, alle quantità usate ed alla lavorazione cui essi vengono sottoposti, quindi potremo avere birre differenti tra loro, sia per il colore, sia per il gusto, arrivando a poter soddisfare qualsiasi tipo di palato.

martedì 9 febbraio 2016

Elettrolisi


Materie prime: l'Acqua 1.0 (l'elettrolisi)


L'elettrolisi dell'acqua è un processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell'acqua in ossigeno ed idrogeno gassosi. Dal punto di vista etimologico, il termine elettrolisi è composto dal prefisso elettro- (elettricità) e da lisi (separazione).

Come funziona: la cella elettrolitica è in genere composta da due elettrodi di un metallo inerte, (es.  platino) immersi in una soluzione elettrolitica e connessi ad una sorgente di corrente. La corrente elettrica dissocia la molecola d'acqua negli ioni H+ e OH-.
Al catodo gli ioni idrogeno (H+) acquistano elettroni in una reazione di riduzione che porta alla formazione di idrogeno gassoso

2 H+ + 2 e- → H2

All'anodo, gli ioni idrossido (OH-) subiscono ossidazione, cedendo elettroni:

4 OH- - 4 e- → 4 OH → 2 H2O + O2

Si formerà quindi un volume di idrogeno quasi doppio del volume di ossigeno (in quanto secondo la legge dei gas perfetti il numero di moli e il volume sono in proporzionalità diretta), quindi l'idrogeno avendo il doppio delle moli e il volume molare dell'idrogeno è di 11,42 × 10−3  m³/mol, mentre per l'ossigeno è di 17,36 × 10−3  m³/mol, quindi per l'idrogeno si ha quasi il doppio del volume dell'ossigeno. Quindi cosa succede? La corrente esce dall'alimentatore e riesce a fluire nei due cilindri grazie al liquido presente nel voltametro di Hoffman (soluzione elettrolitica). Come conseguenza del passaggio di corrente, si nota un fenomeno di effervescenza, cioè il formarsi di bolle di gas alla base dei due cilindri, in corrispondenza degli elettrodi: l'acqua si scinde nei due gas costituenti, idrogeno ed ossigeno. L'idrogeno appare al catodo (l'elettrodo caricato negativamente da cui gli elettroni vengono immessi nell'acqua), mentre all'anodo (l'elettrodo caricato positivamente, in cui vengono assorbiti gli elettroni provenienti dall'acqua) si sviluppa ossigeno. Essendo leggeri, i gas si accumulano nella parte superiore dei rispettivi cilindri, all'aumentare dell'energia potenziale (agendo sulla manopola dell'alimentatore) si nota un corrispondente aumento della quantità di gas sviluppati. In condizioni ideali, si può notare che la quantità di idrogeno è approssimativamente doppia di quella dell'ossigeno, poiché il livello del liquido nei cilindri si abbassa a causa della pressione del gas contenuto nella parte superiore. Per verificare che il gas sviluppatosi al catodo sia proprio l'idrogeno (estremamente infiammabile), bisogna avvicinare un fiammifero acceso al rubinetto aperto del cilindro catodico e si osserva effettivamente una fiamma. La decomposizione dell'acqua in idrogeno ed ossigeno in condizioni standard è una reazione sfavorita in termini termodinamici, poiché entrambe le semi reazioni che intervengono hanno potenziali negativi.

Anodo (ossidazione): 2H2O(l) → O2(g) + 4H+(aq) + 4e- E0rid= 1,229 VCatodo (riduzione): 4H2O + 4e- → 2H2 + 4OH- E0rid= -0,830 V

Utilizzando l'equazione \Delta G = -nFE, l'energia libera di Gibbs per il processo in condizioni standard vale 474,4 kJ/mol, il che traduce la non spontaneità della reazione.
Detto ciò, non voglio farvi tempo con formule su formule che ci incasinano la testa, non vogliamo fare i chimici, ma la birra. A questo proposito, ho realizzato un video per andare a vedere, nella pratica, cosa succede all’acqua quando la andiamo a scomporre. Ho preso due campioni di acqua differenti e gli ho analizzati facendo l’elettrolisi.
Per essere più corretti, i due campioni di acqua sono identici, come identica è la sorgente da cui sono stati prelevati, cioè il rubinetto della mia cucina. La differenza sta semplicemente nella depurazione dell’acqua. Il primo campione infatti, è stato prelevato direttamente dal miscelatore del lavello, mentre il secondo è stato prelevato da un altro “rubinettino”, collegato alla stessa sorgente d’acqua, ma che passa da un depuratore ad osmosi inversa (come ho accennato nell’articolo “Materie prime: l’acqua”) montato sotto il lavello della mia cucina. Con questo non voglio dirvi di comprare un  depuratore o altro, ma solo far notare la differenza che esiste tra acqua e acqua.


 



Come si può notare dal video, dando corrente allo strumento per l’elettrolisi, in entrambi i campioni, iniziano a crearsi delle bollicine gassose dovute alla scomposizione degli elementi presenti nell’acqua, ma, mentre nell’acqua del  “rubinetto” si forma immediatamente una schiuma “colorata” (vi assicuro che in altre occasioni ho visto diventare l’acqua persino marrone), l’acqua “osmosi” rimane abbastanza limpida (il  100% di purezza nell’ambito casalingo è un po’ difficile). Si intravedono delle bollicine nelle vicinanze dell’anodo e del catodo a causa del processo in atto, ma la differenza della torbidità dell’acqua mi sembra palese. Per provare se l’acqua è ideale oppure no, potete provare anche con dei semplici Kit per la prova del Ph o della “durezza”.

Per avere una buona riuscita della birra non è necessario avere un depuratore (io lo usavo già normalmente per uso domestico e lo uso anche per la birra), come non è necessario dare una elevata importanza all’acqua, ma nemmeno sottovalutarla troppo. Noterete che con materie prime migliori, migliore sarà anche la qualità della vostra birra…a partire dall’acqua.

mercoledì 3 febbraio 2016

Materie prime: l'Acqua


Continuiamo il nostro viaggio andando ad esaminare le materie prime indispensabili per produrre la nostra amata Birra.

Iniziamo con l’Acqua. Si fa presto a dire acqua, ma non è così semplice come sembra, niente di spaventoso ma... Come per il nostro corpo, anche della birra essa costituisce un elemento preponderante della sua costituzione finale. Grazie alle piogge , l’acqua si distribuisce sul globo terrestre e penetra nel terreno, apportando alla vegetazione la necessaria umidità, e accumulandosi nelle falde acquifere che alimentano le sorgenti o i pozzi. Buona parte di essa però, defluisce dalla montagna verso i mari, andando a formare così fiumi e laghi. L’acqua superficiale, normalmente, è ricca di microrganismi e di sostanze organiche, quindi non adatta alla fabbricazione della birra, per il quale si consiglia, ovviamente, un acqua pura e indispensabilmente potabile. Attraversando gli strati terrestri, l’acqua piovana, ricca di anidride carbonica, scioglie i sali minerali e si arricchisce di carbonati di calcio e di magnesio, che donerebbero alla birra un sapore meno morbido, poiché la loro alcalinità, ridurrebbe gli acidi organici apportati dal malto. Ma i minerali della terra, donano all’acqua anche altri sali minerali, quali solfati e cloruri, che apporterebbero invece alla birra una migliore qualità in termini di sapore. Nel caso dei carbonati, possiamo parlare di “durezza temporanea”, poiché questi sono facilmente eliminabili grazie alla bollitura, cristallizzandosi sulla superficie del recipiente. Semplicemente lavandoci le mani con acqua e sapone, possiamo rilevare la quantità di carbonati presente all’interno di essa: se il sapone stenta ad essere risciacquato, lasciando la pelle delle mani morbida per “lungo” tempo, allora c’è una scarsa quantità di carbonati; al contrario la ricchezza di essi rende la pelle più ruvida, poiché la loro presenza fa scivolare via il sapone molto velocemente.

Poi esiste la “durezza permanente”, cioè quei sali minerali che invece resistono disciolti nell’acqua anche a temperature di ebollizione, i quali raramente, però, vanno a modificare il sapore ed il corpo della bevanda prodotta. Quindi, l’acqua da usare per la produzione della birra dev’essere in sostanza povera di carbonati, eliminabili facilmente con la bollitura; processo che a livello industriale diventerebbe elevato in quanto a costi. Per eliminare anche gli altri Sali, anche se non dannosi per la riuscita di un buon risultato, invece, si può ricorrere a scambiatori ionici o all’osmosi inversa. Quest’ultima, è un sistema di filtrazione sotto alta pressione attraverso una finissima membrana, che trattiene le molecole di sali. Diffusi sono ormai i depuratori ad osmosi inversa usati anche nell’ambiente casalingo che permettono di trasformare l’acqua del rubinetto in “acqua da bere”. (Io personalmente, ho questo tipo di depuratore in casa da anni, e lo consiglio vivamente, sia per bere, che per cucinare e ovviamente per produrre la birra.) Attenzione, volutamente non ho usato il termine acqua potabile, perché, per legge l’acqua che fuori esce dai nostri rubinetti deve essere potabile, ma spesso risulta essere piena di cloro, sostanza dannosa per il corpo umano e dannosa anche per la birra, in quanto porterebbe ad ostruire la fermentazione, vanificando tutte le fatiche precedenti.

Se invece si volesse arricchire l’acqua di durezza permananente, si potrebbe aggiungere sia il “gesso per birrai” o solfato di calcio, sia il cloruro di calcio, due sali che possiedono i requisiti per essere usati in campo alimentare, la cui purezza deve essere conforme alle norme stabilite dalla Farmacopea ufficiale italiana. Il solfato di calcio permette di ottenere birre più secche, mentre il cloruro di calcio, birre più morbide di aroma.

L’acqua “giusta” è sicuramente un fattore importante per un buon risultato nella produzione della birra, ma di secondo ordine rispetto alla qualità delle altre materie prime e, in special modo, alla tecnica adottata, volta a preservare la birra da negative influenze di fattori esterni, quali ossigeno e microrganismi estranei al lievito di coltura. A livello casalingo, dunque, non danniamoci l’anima per colpa dell’acqua, se non avete la possibilità di effettuare un trattamento specifico, è sufficiente far bollire quella del rubinetto per una mezz’ora, e poi travasarla prima dell’impiego. O per andare sul sicuro, potete acquistare una “buona” acqua, tranquillamente tra le bottiglie del supermercato, ma mi raccomando, date sempre una piccola occhiata alle etichette.