Ilmaltobirraio

Ilmaltobirraio

domenica 28 febbraio 2016

Materie prime: Il Lievito


Ultimo, solo per tempistica d’uso, ma non per importanza, è il lievito. Altra materia prima, per la produzione della birra.

Il lievito è un microrganismo, un fungo grande pochi millesimi di millimetro, il quale respira o fermenta a seconda dell’ambiente in cui si trova, e si nutre e produce delle sostanze che si trovano poi nell’ambiente in cui vive, quali alcol etilico, anidride carbonica e cosi via. Con le sue reazioni biochimiche, libera energia che si trasforma in calore. È presente, come tutti i microrganismi, un po’ ovunque; ad esempio, basta lasciare un liquido contenente zuccheri, all’aria, perché questo si metta a produrre bollicine di anidride carbonica, cambi aroma e diventi limpido appena fermentato. La fermentazione in questo caso, però, si dice essere spontanea. Questo fenomeno è stato scoperto, dall’uomo, già molti millenni fa, imparando ad avere un controllo su di esso, aggiungendo al mosto il lievito, spesso ricavato dalla fermentazione precedente, così da non lasciare più nulla al caso, rendendo il processo costante e garantendo così, risultati finali di ottima qualità. Il lievito è uno degli esseri viventi più antichi in natura. La sua creazione risale ad oltre un miliardo di anni fa, quando una combinazione di componenti chimiche si è ordinata in una catena di amminoacidi e nella nota elica degli acidi nucleici, ai quali si deve l’informazione cromosomica e quindi la continuità della specie. Il lievito si usa anche per altre sostanze alimentari come il pane, il vino, i distillati. Per ogni prodotto, ovviamente, si usa un lievito specifico, sempre della famiglia dei saccaromiceti. Ognuno di questi ha la facoltà di produrre un aroma tipico che caratterizza il prodotto finale. I tipi di lievito usati per la birra, in genere, sono due, a seconda del tipo di bevanda che si vuole produrre: Saccharomyces cerevisiae, per la birra ad alta fermentazione e Saccharomyces carlsbergensis per produrre, invece, birra a bassa fermentazione. Come abbiamo detto, entrambi si nutrono, tra l’altro, degli zuccheri presenti, ad esempio il maltosio, che è quello che si trova nel malto o il saccarosio che è semplicemente lo zucchero da cucina. Ciò che li differenzia invece, è la temperatura a cui agiscono, il gusto che conferiscono alla birra e la sede in cui si trovano a fine fermentazione. Il Saccharomyces cerevisiae è stato il primo, era l’unico disponibile fino a 180 anni fa, per uso birraio viene impiegato ad una temperatura tra i 18°C e i 22°C e a fine fermentazione si ritrova alla superficie della birra, per questo viene definito “lievito ad alta fermentazione” e dona alla birra un gusto morbido e rotondo. Il Saccharomyces carlsbergensis, invece, è nato dall’esigenza delle industrie birraie di avere, sia per motivi economici che di contaminazione della birra, una fermentazione a basse temperature. Questo, alla fine della fermentazione, si ritrova sul fondo del fermentatore e per questo può essere facilmente eliminato, viene impiegato a temperature tra i 4°C e i 10°C anche se è in grado di agire anche a temperature superiori e infine, questo lievito conferisce alla birra un gusto più secco. Una volta disidratati e non contaminati con altri microrganismi i lieviti si conservano a lungo anche a temperatura ambiente, in questo modo rendono molto più semplice la commercializzazione. Basta poi, mettere il lievito secco in un bicchiere d’acqua, preferibilmente tiepida, per riattivarlo e procedere quindi “all’inseminazione”. Il birraio casalingo, può ottenere il lievito in diversi modi, ma quello più consigliato è quello di acquistarlo in negozi specializzati, proprio per non rischiare di far diventare inutili ore e ore di preparazione, rovinando la birra per colpa di un lievito “non buono” o contaminato da fattori esterni, solo per risparmiare pochi euro. In commercio, lo si trova sotto forma granulare chiuso in bustina o, un po’ più costoso, in forma liquida, che va, però, necessariamente tenuto al fresco.

Il lievito è una vera e propria fabbrica di enzimi, molecole biochimiche che permettono di scomporre e ricomporre quelle sostanze che sono indispensabili alla vita mediante la digestione, l’assimilazione e la trasformazione in materia organica.

domenica 21 febbraio 2016

Materie prime: Il Luppolo

Il luppolo è una pianta della famiglia delle orticacee, che produce dei fiori molto aromatici; cresce anche selvaticamente, ma la si coltiva facendola rampicare su fili appesi a strutture palificate di sei metri d’altezza. È annuale e si sviluppa da una rizoma, spunta in primavera e la maturazione dei fiori avviene tra agosto e settembre quando, tagliate alla base, viene poi privata dei singoli fiori. Con lo svilupparsi, però, la pianta, crea due tipi di fioritura: maschile e femminile. Per la produzione birraia, servono le infiorescenze “rosa” le quali vengono liberate dai fiori maschili circostanti, che sistematicamente vengono estirpati, proprio per evitarne la fecondazione e quindi la produzione di semi, che le farebbero perdere una parte del prezioso polline. Questi fiori servono a dare alla birra caratteristiche peculiari e insostituibili, quali il gusto amaro e il tipico aroma e profumo. Il primo rende la birra una bevanda dissetante, il secondo la rende invece, gradevole al palato e all’olfatto.

I così denominati, alfa acidi, sono alcuni composti che conferiscono il gusto amaro, mentre numerose altre sostanze diverse, presenti nei fiori sono le “autrici” degli aromi della birra. Le proprietà dei composti che danno amaro e aroma oltre all’essere differenti tra loro, spesso risultano inconciliabili tra loro. Gli alfa acidi, vengono estratti con una certa difficoltà dal fiore. Ad esempio, dopo una bollitura di novanta minuti, solo il 30% di questi viene solubilizzato nel mosto, tuttavia aumentando i tempi di cottura, l’incremento percentuale risulta essere minimo. Necessitano di un tempo di estrazione piuttosto lungo, ma si tratta, per fortuna, di sostanze che resistono al calore, anche se ossidandosi all’aria, a temperatura ambiente, perdono progressivamente le loro proprietà amaricanti. Al contrario, i prodotti aromatizzanti perdono molto più facilmente le loro caratteristiche, dopo cotture anche relativamente brevi. Per questi motivi, si è escogitato un metodo, per rendere conciliabile l’introduzione dei due diversi prodotti nello stesso mosto, differenziando, cioè, il momento “dell’aggiunta”, a seconda del tempo di cottura a cui è predisposto un fiore piuttosto che un altro. Parlando in termini pratici, in una cottura di 90 minuti potremmo aggiungere prima un luppolo amaricante che è più resistente al calore, e verso la fine si potrebbe andare a conferire alla birra un sapore più fine e delicato, sia al palato che all’olfatto, un fiore aromatizzante evitando, così, di farlo rovinare dalla cottura stessa. Questa, anche se risulta essere la procedura più diffusa, non è l’unica. Alcune birre di prestigio, ad esempio, evitano il luppolo aromatico, mentre altre, non meno importanti, sperimentano introduzioni più numerose, di diversi fiori, giocando sulle tempistiche.

Il luppolo contiene inoltre la giusta dose di tannini, che coagulano le proteine che contribuiscono alla chiarificazione naturale della birra, in più, migliora non solo la stabilità della schiuma, ma anche della birra stessa, frenando la riproduzione dei batteri, tanto da essere , addirittura, usato nel campo dell’industria farmaceutica.

Il suo utilizzo è stato introdotto ufficialmente, solo alla fine del primo millennio d.C., prima venivano usati altri ingredienti come la mirica, l’alloro e il rosmarino. Verso il XV secolo, però, quasi ovunque, si vietò, per la fabbricazione della birra, l’uso di ingredienti che non fossero: acqua, cereali e luppolo. Consuetudine, questa, rimasta fino ad oggi.

domenica 14 febbraio 2016

Materie prime: Il Malto


Abbiamo detto che il malto è il prodotto dato dalla “maltazione” dei cereali (vedi Art. “Materie prime: I cereali (Malto)”). Quindi, una volta descritti i cereali nelle loro forme e caratteristiche, andiamo a vedere il processo che compiono per diventare malto. Con il nome malto si identifica un cereale che è stato sottoposto ad un inizio di germinazione, grazie al quale il contenuto dei suoi chicchi diventa solubile e  perciò estraibile mediante acqua. Il malto può essere ottenuto da qualunque cereale, ma quelli che si prestano meglio sono: l’orzo, in primis, ma anche frumento, segale e avena. Diciamo che gli altri, avendo dei germogli più fragili, sono meno indicati.

Il fine di questo processo, chiamato “maltazione”, oltre a quello di far germinare i cereali, è quello di permettere ai chicchi di produrre le amilasi e le proteasi, cioè gli enzimi che in seguito degraderanno: l’amido i primi, e la matrice del chicco stesso, i secondi. I chicchi germogliati, vengono poi essicati, con metodi differenti, per differenziare poi i malti.

La prima fase della maltazione, dopo aver accuratamente selezionato i chicchi, è quella di metterli in ammollo per circa 48 ore, con delle pause per l’ossigenazione, orientativamente da 8 a 12 ore, della durata di un’ora ciascuna. Trascorso questo periodo si verifica l’assorbimento dell’acqua schiacciando il chicco sull’unghia: se si sfalda come gesso umido si è a buon punto e si permette al chicco di germogliare tenendolo in ambiente umido, ma non più immerso, e a temperatura costante.nelle malterie il chicco viene quasi continuamente rimescolato in modo da far raggiungere a tutta la massa dell’orzo la stessa temperatura e umidità e per evitare l’infeltrimento delle radichette. Così condizionato tutto il cereale germoglia in un brevissimo intervallo di tempo, rendendo omogenea tutta la fase, garantendo così anche la miglior resa del malto.

Da ogni chicco esce una radichetta che testimonia della germogliazione e, parallelamente, della parziale degradazione dell’amido. La crescita della radichetta indica il grado di trasformazione raggiunto dal chicco: più è lunga, più matrice proteica e amido sono degradati. Essa non dovrebbe mai superare un terzo della lunghezza del chicco e solo per ottenere del malto scuro si può arrivare alla metà del chicco. A questo punto il malto viene essicato e vengono poi tolte le radichette. L’essicazione è utile perché assolve almeno tre funzioni: la prima, quella di togliere l’umidità in eccesso fino a farla arrivare al 3-4%; la seconda invece, è quella di impartire una particolare colorazione e gusto al malto, e di conseguenza, alla birra che si otterrà; in fine, ma non per merito, c’è quello di aumentare la capacità di conservazione del malto.

La durata della essicazione è di circa 48 ore. La temperatura a cui viene essicato determina il gusto e il colore del malto. Con l’aumentare della temperatura di essicazione, parallelamente, il colore si fa ambrato, dorato, marrone o nero. La temperatura, ha però, il difetto di degradare enzimi presenti nel malto: la regola generale è che più è alta la temperatura di essicazione minore diventa la sua capacità di liberare maltosio e maltodestrine nella fase dell’ammostamento, ma questo lo praticheremo in seguito. Per questo motivo sarà quindi necessario usare sempre delle miscele di malti chiari e scuri in cui i primi per dare la capacità enzimatica, i secondi per andare a conferire gusto e colore. La capacità colorante di un po’ di malto scuro, a volte è più importante della sua mancanza di enzimi, infatti pochi etti di malto scuro valgono a colorare fino a 25litri di birra senza apprezzabili riduzioni dell’attività svolte dagli enzimi. Se assaggiate il malto crudo, specie se chiaro, lo troverete dolce, ciò è dovuto all’azione delle amilasi che, durante la germinazione, hanno già prodotto una piccola quantità di maltosio e maltodestrine. Le proteine all’interno del chicco di malto hanno una struttura che raccoglie e contiene l’amido. Per far agire gli enzimi sull’amido è importante che questa rete sia degradata ad opera delle proteasi, che agiscono sulla maltazione.

giovedì 11 febbraio 2016

Materie prime: I Cereali (Malto)


La seconda, tra le materie prime che andiamo a trattare è il malto.

Che cos’è il malto? Nient’altro che il prodotto dato dalla “maltazione”, appunto, dei cereali. I cereali sono erbacee che, grazie alla clorofilla e all’energia solare, come tutte le piante, riescono a comporre, partendo dall’anidride carbonica dell’aria, gli amidi che si accumulano nei semi. Il birraio utilizza tali amidi trasformandoli in zuccheri grazie all’azione degli enzimi dei cereali stessi, lasciando poi che il lievito li fermenti per produrre l’alcol e l’anidride carbonica della birra.

Per produrre birra, è utilizzabile qualsiasi tipo di cereale, che spesso vengono miscelati tra loro, differenziando le diverse tipologie di birra; ma la scelta delle materie e le diverse quantità dell’uno o dell’altro cereale, sono caratterizzate prevalentemente dalla tipologia di coltivazione locale, che nella maggior parte dei casi viene prediletta. Per cui notiamo che in Europa e in America viene usato molto il mais, in Asia c’è un ovvia prevalenza di riso e il miglio è l’ingrediente preferito del continente africano. Ma il cereale “principe” per la produzione birraia è sicuramente l’orzo, il quale trova sfogo in Germania dove viene utilizzato quasi in esclusiva, insieme ad una piccola percentuale di frumento. L’orzo cresce in ogni regione, da un’altezza che parte dal livello del mare fino a 1600 metri e più. Per questo si presta molto bene quale coltivazione alternativa laddove altri cereali danno uno scarso rendimento. L’orzo permette di ottenere maggior profitto anche quando la coltivazione non è estensiva, in pendenze critiche per gli altri cereali e in terreni difficili. Le regioni che si distinguono per la produzione di orzo da birra, in Italia, sono la Puglia, la Basilicata, il Lazio e la Toscana. Oltre ad essere il più facile e redditizio in campo agricolo, questo cereale risulta essere anche il più usato nel mondo, per la produzione birraia, in quanto, anche il più adatto a trasformarsi in malto attraverso la germogliazione. Non sorprende perciò che, oltre ad essere stato il primo della sua categoria usato dall’uomo per nutrirsi, cronache degli Assiri, risalenti a circa 4000 anni prima di Cristo, raccontano che la prima birra nacque da chicchi di orzo parzialmente germogliati e seccati.

In natura la pianta la pianta si può presentare in due aspetti, che si differenziano in base al numero di file di semi prodotti: l’orzo distico ne presenta solo due, mentre quello con sei o otto file di semi, viene denominato polistico. Per la produzione birraia, ovviamente si usa la qualità migliore, e quindi la prima, che si semina, in genere in primavera e che, data la minor quantità di file, i semi risultano essere più turgidi; ricchi di amido e poveri di proteine. Ogni seme d’orzo, come di qualsiasi altro cereale, contiene una scorta di materiale nutritivo per la germinazione e la crescita della nuova pianta e una certa percentuale di proteine con varie funzioni tra cui quella di trama su cui si regola la disposizione dell’amido nel chicco. Dal punto di vista chimico il materiale nutritivo è costituito da uno zucchero semplice, il glucosio, unito in una lunghissima catena chiamata molecola di amido. Il glucosio, ma non l’amido, è il materiale utilizzato dalle cellule e dai lieviti per il fabbisogno energetico. Partiamo dallo zucchero più semplice, il glucosio, se questo si lega ad un’altra molecola identica, otteniamo il maltosio, zucchero anch’esso fermentabile, cioè utilizzabile dal lievito che, sfruttando la buona capacità dolcificante, gli consente di moltiplicarsi e vivere nella birra. L’unione invece, di una decina o dozzina di glucosi, dà vita ad un altro zucchero chiamato maltodestrina. Questa molecola è meno dolce del maltosio, ma che comunque conferisce al palato, un buon gusto di pienezza e di dolce che viene genericamente descritto come “corpo” della birra. Le maltodestrine non sono però attaccabili dai lieviti e sono quindi note col termine generico di “zuccheri non fermentescibili”. Se andiamo invece ad allungare questa catena di zuccheri fino ad ottenere una specie di trenino fatto di alcune centinaia di migliaia di molecole di glucosio, otteniamo una struttura che chiamiamo amido e che è, quindi, il principale componente, dal punto di vista quantitativo, della nostra materia base: il seme d’orzo. La disgregazione di questa enorme struttura richiede una serie di reazioni chimiche che spezzano la catena fino a strutture più semplici e, dal punto di vista organolettico, più dolci. Inoltre l’amido, per essere attaccato, deve essere liberato dalla maglia di proteine che lo lega, tramite la proteasi. Questa disgregazione avviene durante la maltazione e la prima fase dell’infusione: in sostanza, si passa dall’amido via via fino ad arrivare alle maltodestrine e al maltosio. In base ai cereali scelti, alle quantità usate ed alla lavorazione cui essi vengono sottoposti, quindi potremo avere birre differenti tra loro, sia per il colore, sia per il gusto, arrivando a poter soddisfare qualsiasi tipo di palato.

martedì 9 febbraio 2016

Elettrolisi


Materie prime: l'Acqua 1.0 (l'elettrolisi)


L'elettrolisi dell'acqua è un processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell'acqua in ossigeno ed idrogeno gassosi. Dal punto di vista etimologico, il termine elettrolisi è composto dal prefisso elettro- (elettricità) e da lisi (separazione).

Come funziona: la cella elettrolitica è in genere composta da due elettrodi di un metallo inerte, (es.  platino) immersi in una soluzione elettrolitica e connessi ad una sorgente di corrente. La corrente elettrica dissocia la molecola d'acqua negli ioni H+ e OH-.
Al catodo gli ioni idrogeno (H+) acquistano elettroni in una reazione di riduzione che porta alla formazione di idrogeno gassoso

2 H+ + 2 e- → H2

All'anodo, gli ioni idrossido (OH-) subiscono ossidazione, cedendo elettroni:

4 OH- - 4 e- → 4 OH → 2 H2O + O2

Si formerà quindi un volume di idrogeno quasi doppio del volume di ossigeno (in quanto secondo la legge dei gas perfetti il numero di moli e il volume sono in proporzionalità diretta), quindi l'idrogeno avendo il doppio delle moli e il volume molare dell'idrogeno è di 11,42 × 10−3  m³/mol, mentre per l'ossigeno è di 17,36 × 10−3  m³/mol, quindi per l'idrogeno si ha quasi il doppio del volume dell'ossigeno. Quindi cosa succede? La corrente esce dall'alimentatore e riesce a fluire nei due cilindri grazie al liquido presente nel voltametro di Hoffman (soluzione elettrolitica). Come conseguenza del passaggio di corrente, si nota un fenomeno di effervescenza, cioè il formarsi di bolle di gas alla base dei due cilindri, in corrispondenza degli elettrodi: l'acqua si scinde nei due gas costituenti, idrogeno ed ossigeno. L'idrogeno appare al catodo (l'elettrodo caricato negativamente da cui gli elettroni vengono immessi nell'acqua), mentre all'anodo (l'elettrodo caricato positivamente, in cui vengono assorbiti gli elettroni provenienti dall'acqua) si sviluppa ossigeno. Essendo leggeri, i gas si accumulano nella parte superiore dei rispettivi cilindri, all'aumentare dell'energia potenziale (agendo sulla manopola dell'alimentatore) si nota un corrispondente aumento della quantità di gas sviluppati. In condizioni ideali, si può notare che la quantità di idrogeno è approssimativamente doppia di quella dell'ossigeno, poiché il livello del liquido nei cilindri si abbassa a causa della pressione del gas contenuto nella parte superiore. Per verificare che il gas sviluppatosi al catodo sia proprio l'idrogeno (estremamente infiammabile), bisogna avvicinare un fiammifero acceso al rubinetto aperto del cilindro catodico e si osserva effettivamente una fiamma. La decomposizione dell'acqua in idrogeno ed ossigeno in condizioni standard è una reazione sfavorita in termini termodinamici, poiché entrambe le semi reazioni che intervengono hanno potenziali negativi.

Anodo (ossidazione): 2H2O(l) → O2(g) + 4H+(aq) + 4e- E0rid= 1,229 VCatodo (riduzione): 4H2O + 4e- → 2H2 + 4OH- E0rid= -0,830 V

Utilizzando l'equazione \Delta G = -nFE, l'energia libera di Gibbs per il processo in condizioni standard vale 474,4 kJ/mol, il che traduce la non spontaneità della reazione.
Detto ciò, non voglio farvi tempo con formule su formule che ci incasinano la testa, non vogliamo fare i chimici, ma la birra. A questo proposito, ho realizzato un video per andare a vedere, nella pratica, cosa succede all’acqua quando la andiamo a scomporre. Ho preso due campioni di acqua differenti e gli ho analizzati facendo l’elettrolisi.
Per essere più corretti, i due campioni di acqua sono identici, come identica è la sorgente da cui sono stati prelevati, cioè il rubinetto della mia cucina. La differenza sta semplicemente nella depurazione dell’acqua. Il primo campione infatti, è stato prelevato direttamente dal miscelatore del lavello, mentre il secondo è stato prelevato da un altro “rubinettino”, collegato alla stessa sorgente d’acqua, ma che passa da un depuratore ad osmosi inversa (come ho accennato nell’articolo “Materie prime: l’acqua”) montato sotto il lavello della mia cucina. Con questo non voglio dirvi di comprare un  depuratore o altro, ma solo far notare la differenza che esiste tra acqua e acqua.


 



Come si può notare dal video, dando corrente allo strumento per l’elettrolisi, in entrambi i campioni, iniziano a crearsi delle bollicine gassose dovute alla scomposizione degli elementi presenti nell’acqua, ma, mentre nell’acqua del  “rubinetto” si forma immediatamente una schiuma “colorata” (vi assicuro che in altre occasioni ho visto diventare l’acqua persino marrone), l’acqua “osmosi” rimane abbastanza limpida (il  100% di purezza nell’ambito casalingo è un po’ difficile). Si intravedono delle bollicine nelle vicinanze dell’anodo e del catodo a causa del processo in atto, ma la differenza della torbidità dell’acqua mi sembra palese. Per provare se l’acqua è ideale oppure no, potete provare anche con dei semplici Kit per la prova del Ph o della “durezza”.

Per avere una buona riuscita della birra non è necessario avere un depuratore (io lo usavo già normalmente per uso domestico e lo uso anche per la birra), come non è necessario dare una elevata importanza all’acqua, ma nemmeno sottovalutarla troppo. Noterete che con materie prime migliori, migliore sarà anche la qualità della vostra birra…a partire dall’acqua.

mercoledì 3 febbraio 2016

Materie prime: l'Acqua


Continuiamo il nostro viaggio andando ad esaminare le materie prime indispensabili per produrre la nostra amata Birra.

Iniziamo con l’Acqua. Si fa presto a dire acqua, ma non è così semplice come sembra, niente di spaventoso ma... Come per il nostro corpo, anche della birra essa costituisce un elemento preponderante della sua costituzione finale. Grazie alle piogge , l’acqua si distribuisce sul globo terrestre e penetra nel terreno, apportando alla vegetazione la necessaria umidità, e accumulandosi nelle falde acquifere che alimentano le sorgenti o i pozzi. Buona parte di essa però, defluisce dalla montagna verso i mari, andando a formare così fiumi e laghi. L’acqua superficiale, normalmente, è ricca di microrganismi e di sostanze organiche, quindi non adatta alla fabbricazione della birra, per il quale si consiglia, ovviamente, un acqua pura e indispensabilmente potabile. Attraversando gli strati terrestri, l’acqua piovana, ricca di anidride carbonica, scioglie i sali minerali e si arricchisce di carbonati di calcio e di magnesio, che donerebbero alla birra un sapore meno morbido, poiché la loro alcalinità, ridurrebbe gli acidi organici apportati dal malto. Ma i minerali della terra, donano all’acqua anche altri sali minerali, quali solfati e cloruri, che apporterebbero invece alla birra una migliore qualità in termini di sapore. Nel caso dei carbonati, possiamo parlare di “durezza temporanea”, poiché questi sono facilmente eliminabili grazie alla bollitura, cristallizzandosi sulla superficie del recipiente. Semplicemente lavandoci le mani con acqua e sapone, possiamo rilevare la quantità di carbonati presente all’interno di essa: se il sapone stenta ad essere risciacquato, lasciando la pelle delle mani morbida per “lungo” tempo, allora c’è una scarsa quantità di carbonati; al contrario la ricchezza di essi rende la pelle più ruvida, poiché la loro presenza fa scivolare via il sapone molto velocemente.

Poi esiste la “durezza permanente”, cioè quei sali minerali che invece resistono disciolti nell’acqua anche a temperature di ebollizione, i quali raramente, però, vanno a modificare il sapore ed il corpo della bevanda prodotta. Quindi, l’acqua da usare per la produzione della birra dev’essere in sostanza povera di carbonati, eliminabili facilmente con la bollitura; processo che a livello industriale diventerebbe elevato in quanto a costi. Per eliminare anche gli altri Sali, anche se non dannosi per la riuscita di un buon risultato, invece, si può ricorrere a scambiatori ionici o all’osmosi inversa. Quest’ultima, è un sistema di filtrazione sotto alta pressione attraverso una finissima membrana, che trattiene le molecole di sali. Diffusi sono ormai i depuratori ad osmosi inversa usati anche nell’ambiente casalingo che permettono di trasformare l’acqua del rubinetto in “acqua da bere”. (Io personalmente, ho questo tipo di depuratore in casa da anni, e lo consiglio vivamente, sia per bere, che per cucinare e ovviamente per produrre la birra.) Attenzione, volutamente non ho usato il termine acqua potabile, perché, per legge l’acqua che fuori esce dai nostri rubinetti deve essere potabile, ma spesso risulta essere piena di cloro, sostanza dannosa per il corpo umano e dannosa anche per la birra, in quanto porterebbe ad ostruire la fermentazione, vanificando tutte le fatiche precedenti.

Se invece si volesse arricchire l’acqua di durezza permananente, si potrebbe aggiungere sia il “gesso per birrai” o solfato di calcio, sia il cloruro di calcio, due sali che possiedono i requisiti per essere usati in campo alimentare, la cui purezza deve essere conforme alle norme stabilite dalla Farmacopea ufficiale italiana. Il solfato di calcio permette di ottenere birre più secche, mentre il cloruro di calcio, birre più morbide di aroma.

L’acqua “giusta” è sicuramente un fattore importante per un buon risultato nella produzione della birra, ma di secondo ordine rispetto alla qualità delle altre materie prime e, in special modo, alla tecnica adottata, volta a preservare la birra da negative influenze di fattori esterni, quali ossigeno e microrganismi estranei al lievito di coltura. A livello casalingo, dunque, non danniamoci l’anima per colpa dell’acqua, se non avete la possibilità di effettuare un trattamento specifico, è sufficiente far bollire quella del rubinetto per una mezz’ora, e poi travasarla prima dell’impiego. O per andare sul sicuro, potete acquistare una “buona” acqua, tranquillamente tra le bottiglie del supermercato, ma mi raccomando, date sempre una piccola occhiata alle etichette.

martedì 2 febbraio 2016

Il Maltobirrofilo



Chi è il Maltobirrofilo? Andiamo a scoprirlo…Il variegato mondo del collezionismo riserva, anche alla birra un grande interesse. Dagli oggetti più umili, quali le etichette e le sottocoppe, si arriva persino a raccogliere quadri e oggetti preziosi inerenti la nostra bionda bevanda. Ricordiamoci che il collezionista, però, non è attratto indispensabilmente dal valore di uno o l’altro oggetto, bensì dalla bellezza o dalla stravaganza di ciò che riesce a trovare. I settori di ricerca del “Birrofilo” sono quindi numerosi. Ogni giorno, fanno visita alle fabbriche di birra, richieste di etichette, tappi a corona, sottocoppe, barattoli e così via. Esistono organizzazioni attive che si muovono in questo senso, operando con entusiasmo ammirevole, una su tutte, il club degli “Amici della Birra”, diffusosi in tutta Italia sempre presente ad ogni manifestazione birraia. Nel campo delle etichette, alcuni collezionisti ne contano centinaia di migliaia. Pare che di sottocoppe, o più spesso chiamati sottobicchieri, un certo Leo Pisker ne possegga circa 110.000, tutte diverse l’una dall’altra. Per i tappi a corona, c’è una corsa alla rarità delle “prove stampa”, a volte introvabili come i francobolli. Poi ci sono ovviamente anche le chiavi apri bottiglia, di infinite varietà e materiali: lamiera, ottone, rame, legno, argento e addirittura oro. Anche i barattoli o le lattine, chiaramente fanno la loro parte, in quantità e varietà non indifferenti, ma il collezionismo classico birraio, si rivolge principalmente ai boccali: di legno, di ceramica, porcellana, stagno, argento, avorio e oro. Si estende anche ai manifesti pubblicitari, come quelli affascinanti d’inizio secolo in stile liberty, o le pregiate stampe inglesi, per arrivare addirittura a veri e propri quadri di numerosi artisti, facenti parte per dipiù della scuola tedesca e fiamminga.

Prima abbiamo citato i francobolli, come confronto di rarità; ebbene, esiste anche una filatelia riguardante l’arte birraia, esemplari raffiguranti Jacobsen, Pasteur e molti altri luminari, che nella storia hanno contribuito allo sviluppo scientifico della birra; oppure raffiguranti le varie materie prime o le fasi di fabbricazione, oltre a moltissimi che riportanto splendidi boccali di birra.

Un po’ ovunque, nel mondo stanno sorgendo musei, che raccolgono cimeli di impianti e attrezzi birrari dei tempi passati, rendendo possibile, in alcuni casi, la ricostruzione di intere sale di cottura e imbottigliamento, con macchinari diversi. Ricchissimo è il campo anche della bibliografia birraia. Migliaia sono infatti i volumi scritti sulla birra: ricordiamo fra i primi quello di Martin Schook, del 1661, Liber de Cervisia, scritto in latino con cui l’autore diffuse l’arte di produrre la birra. Infine ricordiamo la scripofilia: ovvero l’arte di collezionare vecchi certificati azionari e obbligazionari, singolare passione che permette di rivisitare la storia delle fabbriche di birra, o talvolta di certificarne l’effettiva esistenza di alcune, essendone sparita ogni traccia.

lunedì 1 febbraio 2016

Tra birra e virtù

In passato, ovviamente, non mancò chi riconobbe virtù terapeutiche alla birra. La birra di Zerbst, per esempio era conosciuta per le sue caratteristiche diuretiche. La si beveva infatti, anche per provare a liberarsi dai calcoli renali, nella speranza di evitare le noiose, e a volte costose, cure mediche. Come sosteneva anche Colerus, che scrisse, Oeconomia ruralis et domestica, pubblicato nel XVII secolo. Ne scrisse anche  P.E. Wauterns, in L’uytzet e le sue doti salutari. Infatti, se consumata con moderazione e buon senso, la birra, può avere effetti benefici, oltre che sull’umore, anche sulla nostra salute. Grazie alle proprietà dei suoi ingredienti, in particolare del luppolo, può essere d’aiuto in alcune importanti funzioni del nostro corpo: ricordiamo, ad esempio, gli effetti benefici a livello digestivo, che favorisce l’appetito e svolge un efficace attività eupeptica. Anche il lievito “dice la sua”, utile in casi di patologie alla flora intestinale. Ed in più, ripeto, sempre assunta in quantità controllate, dona effetti positivi all’apparato circolatorio poichè rinforza la tonicità di vene e capillari e grazie alla vitamina B12 agisce come antianemico sul sangue.
Prima che la scienza potesse dare i suoi importantissimi contributi alla tecnica birraia, non mancarono a livello empirico, spiritose e ingegnose trovate, volte a dare un giudizio sulle doti della bevanda in preparazione. Si narra, infatti, di una curiosa tecnica, chiamata “prova panchina”. Il procedimento era semplice, bastava versare un pò di birra sopra una panca, per poi sedercisi sopra con dei particolari pantaloni di cuoio indossati, appunto, per l’occasione. Se dopo mezz’ora, alzandosi, i pantaloni  rimanevano incollati alla panchina, voleva dire che la birra in questione, era considerata buona perchè ricca di estratti, al contrario si riteneva la bevanda debole e priva di consistenza, se non avveniva nessun “legame” tra pantaloni e panchina. Più tardi venne inventato un aerometro: era semplicemente un galleggiante d’ambra con una scala graduata. Più la scala sporgeva dalla superficie della birra, e più questa era ritenuta “forte”. Nulla di scientifico, ma molto più obbiettiva, rispetto alla “prova panchina”.                                                                                     
Dello stretto rapporto tra  attività birraia e scienza, ne diede un buon esempio la Fondazione Carlsberg di Copenaghen, fondata e amministrata, nel 1875 da J.C. Jacobsen, fino alla cessione ad un comitato eletto dall’ Accademia Reale delle Scienze di Copenaghen,  il quale curò lo sviluppo in oltre cento anni di attività. Lo scopo di Jacobsen era quello di dotare i collaboratori di conoscenze sempre più profonde, inerenti ai processi naturali che si svolgono nella fabbricazione della birra. La ricerca, ha raggiunto livelli tali, che oggi, la Scuola costituisce il più importante centro nel campo della biochimica e della biologia. In un secolo di attività, gli allievi  hanno contribuito al progresso delle scienze in tutto il mondo, fino a meritare in alcuni casi l’ambita onoreficenza del Premio Nobel.

Cenni storici


A giudicare dalla sua storia, pare essere la bevanda per eccellenza, con un destino già tutto scritto, nel suo stesso nome: BIRRA.

Dal latino bibere, "bere".

Sul suo luogo esatto di nascita, però, non ci sono molte certezze. I primi documenti sicuri, raccontano che furono gli antichi sumeri a codificare, oltre 5mila anni fa, il modo di produrla. Mentre per i babilonesi la birra aveva già un valore imprescendibile, tanto che il famoso imperatore Hammurabi, regolamentò nel suo codice, il comportamento delle "ostesse". Già, perchè al tempo, solo le donne potevano dedicarsi al commercio della birra.

Uno dei punti del regolamento, vietava, in assoluto, l'annacquamento della bevanda, prima di essere venduta. Pena: l'annegamento nella stessa.

Nell'antico Egitto la birra, considerata a metà tra nutrimento e medicina, rivestiva un ruolo fondamentale sia nell'alimentazione che nella religione, e pare che anche Cleopatra fosse una grande estimatrice e consumatrice di "zythum" , denominazione della bevanda, all'epoca.

Anche a Roma era tanto apprezzata, tanto da indurre l'imperatore Diocleziano a fissare un prezzo massimo per i tre tipi di birra allora in commercio.

In Cina, invece, era popolarissima, già dal terzo millennio a.C.

Con tali premesse, non sorprende il numero crescente di quanti, estimatori e appassionati, prima o poi si ritrovino a cimentarsi con una produzione propria, quasi che i fermenti che portano alla realizzazione di questa bevanda facciano parte, in qualche modo misterioso, del nostro Dna.

Ben radicata nel mondo anglosassone, l'autoproduzione di birra, va ormai, diffondendosi anche in Italia.

Produrre birra in casa, in effetti, non richiede grossi investimenti economici, tanto che, tutti, o quasi, hanno la possibilità, volendo, di provare a cimentarsi e sperimentare le proprie capacità, all'interno della stessa cucina casalinga, per poi passare, nel caso, a procedimenti più complessi, ricavandone anche, delle belle soddisfazioni...Quindi...perchè no??